I Masai (o Maasai, “coloro che parlano la lingua Maa”) sono la più famosa e nota tribù dell’Africa orientale. Fieri, alti e forti, guerrieri feroci nella difesa delle loro terre e soprattutto del loro bestiame, sono molto più del folklore dei loro balli a cui il turismo più superficiale li riduce.

Le origini

Pastori transumanti di origine nilotica, i Masai sono probabilmente migrati intorno al 1600 dalla valle del Nilo in Etiopia e in Sudan per stabilirsi infine, con il loro bestiame, nella Masailand, tra Kenya e Tanzania, sugli altopiani della Rift Valley. Temuti da tutte le tribù, i Masai si indebolirono a causa della colonizzazione e della suddivisione delle loro terre tra Kenya, colonia inglese, e Tanganyka, colonia tedesca che insieme a Zanzibar costituisce l’attuale Tanzania. Nel 1890 furono decimati dal morbillo, dalla peste bovina e dalla siccità: solo 25.000 Masai sopravvissero. Visitando il Kenya e la Tanzania si incontrano Masai che vivono in città e che coniugano la loro identità con la vita moderna, ma sono ancora molti quelli che non hanno ceduto alle lusinghe dell’occidente e che continuano a vivere nel rispetto di una tradizione antica: nella tribù i Masai conducono una vita dura, scandita dalla cura del bestiame e dall’educazione guerriera, nelle capanne di fango e sterco dei loro tipici boma circolari, dove a ogni tramonto ritirano le loro preziose mandrie.

L’organizzazione sociale

Definire ‘patriarcale’ la struttura sociale dei Masai è semplicistico e riduttivo: più che patriarcale, l’organizzazione è familiare nel senso più ampio, essendo il clan il vero tratto distintivo della vita di un Masai, uomo o donna che sia. La continuità, la ricchezza, la sopravvivenza del clan, sono il fine di ogni tradizione masai. Uomini e donne piegano la loro vita al clan, in una struttura gerarchica che riguarda i maschi come le femmine: se gli uomini dettano i ritmi delle generazioni maschili, le donne, in un contesto in cui la poligamia è la norma, si aiutano nella gestione della vita familiare e nell’educazione dei figli, coordinate dalla prima moglie del loro marito che si prende cura di loro come una sorella maggiore, pur godendo, ciascuna, di una propria autonomia. Sin dalla nascita la vita dei masai è scandita da riti di passaggio, il primo dei quali è la vita stessa, dichiarata come tale solo dopo mesi, quando la madre sente di avere la ragionevole certezza che il bimbo è in salute e in grado di sopravvivere; prima il bimbo non ha un nome né una famiglia, se non la madre sola. I maschi, suddivisi per gruppi di età, passano da bimbi a guerrieri giovani (con il rito della circoncisione), poi a guerrieri anziani (stadio in cui ci si può sposare), ad adulti (anziani giovani), e infine ad anziani. Ogni passaggio dura più anni, e ciascun gruppo, costituito da una classe di età, passa di grado in grado secondo la scansione degli anni decisa dagli anziani. La suddivisione della popolazione maschile in gruppi fissi, che insieme crescono e compiono tutti i passaggi della vita, è un elemento di forte coesione nel clan e ne garantisce l’affiatamento. La comunità degli anziani sceglie anche i leader di ogni gruppo, ma il leader supremo è l’ol-oiboni, incarico a vita di grande impegno e responsabilità, affidato in base a una rigida valutazione delle doti morali e fisiche di ciascun soggetto. L’ol-oiboni non è un capo nel senso tradizionale del termine, ma il clan ricorre al suo consiglio per le doti soprannaturali e profetiche che gli vengono attribuite.

Ogni passaggio della vita dei Masai è celebrato da una cerimonia rituale, ma nessun rito è invece dedicato alla morte: i Masai non si interessano di un al di là che non conoscono e non si curano di seppellire i corpi del loro defunti, che abbandonano nella natura.

I Masai credono in un unico Dio, che ha reso fertile la terra, creato il sole la luna, le stelle, l’uomo e la donna, e ha donato ai Masai tutto il bestiame, lasciando agli altri popoli la selvaggina.

 

La condizione femminile

La nascita di una femmina è salutata come una benedizione, perché sulla donna si basa tutta l’economia masai: la costruzione della capanna, la raccolta dell’acqua, la procreazione e la cura dei figli propri e delle altre mogli. La vita quotidiana si poggia sul lavoro delle donne, mogli di uno stesso uomo che si aiutano e cooperano per ottemperare alle loro tante responsabilità. Ciascuna moglie vive nella sua capanna con i suoi figli, e il marito dorme “a turno” con ciascuna di loro. La vita di una donna è quindi preziosa ma durissima. I matrimoni sono sempre combinati, talvolta sin da prima della nascita, quando famiglie vicine suggellano la loro solidarietà destinando i rispettivi figli a sposarsi. Sullo scambio tra figlie date in spose e bestiame si regge l’equilibrio economico di un popolo che sul numero di mucche e di mogli misura la propria ricchezza e garantisce la propria sussistenza. Solo nei rarissimi casi in cui un uomo non abbia avuto neppure un figlio maschio, a una delle sue figlie è concesso non sposarsi (o, da un altro punto di vista, è proibito sposarsi) e accoppiarsi a suo piacimento per dare alla famiglia il figlio maschio che ne garantisca la continuità. Le bambine vengono condotte all’accettazione di una vita così dura attraverso il trauma della mutilazione dei genitali, organizzata dalle madri nella riservatezza della propria capanna.

Tutto il mondo tribale porta con sé, insieme al fascino di una cultura che possiamo definire “originaria”, l’orrore di pratiche incomprensibili e giustamente riprovevoli per la nostra consapevolezza e cultura; mediare è impossibile, aiutare invece si può e si deve: visitando le tribù, noi diamo il nostro contributo economico alla loro sopravvivenza, e sostenendo l’associazione della coraggiosa Rhobi Samwelly Hope for girls & women contribuiamo alla lotta alla pratica delle mutilazioni e al contenimento delle sue conseguenze.

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